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“Parole e immagini di una storia minore – L’emigrazione siciliana in Tunisia”, il nuovo libro del professor Alfonso Campisi

Di Jana Cardinale

“Parole e immagini di una storia minore – L’emigrazione siciliana in Tunisia” (XIX e XX secolo). E’ questo il titolo del nuovo libro del professor Alfonso Campisi, trapanese di nascita e tunisino d’adozione, professore ordinario di Filologia italiana e romanza all’Università La Manouba di Tunisi, pubblicato sotto l’alto patronato del Ministro degli Affari Esteri tunisino e dell’Ambasciata d’Italia, in lingua italiano-francese. Il  libro si apre, a mo’ di introduzione, con una serie di testi scritti da Alfonso Campisi, presentati con il titolo Profilomosaico dei siciliani di Tunisia. Narrazioni, personaggi, memorie. In ciascuno di essi l’autore sviluppa un aspetto specifico della storia della comunità siciliana di Tunisia: le innumerevoli ragioni che hanno spinto i siciliani a lasciare la loro isola d’origine, le difficoltà di integrazione riscontrate al loro arrivo nel paese d’accoglienza, le loro relazioni con i francesi, i tunisini ma anche con le altre comunità minoritarie di Tunisia: i maltesi, gli ebrei di Tunisia, gli italiani del sud e del nord della Penisola. Se questo contesto plurilingue e multiculturale della Tunisia tra il XIX e il XX secolo ha, da un lato, facilitato l’integrazione nel paese d’adozione, dall’altro, ha costretto ogni individuo a confrontarsi con l’alterità all’interno di un complesso laboratorio di lingue, di culture e di sistemi di valori fondati su paradigmi molto diversi. Nel crocevia di questi scambi incessanti si rileva una vera e propria permeabilità tra le culture. Leggendo i testi di Campisi, ci accorgiamo, per esempio, che la “fuitina”, un tratto culturale strettamente siciliano, diventa per alcuni l’occasione per lasciare la Sicilia e per sbarcare in Tunisia; si scopre che una delle prime linee ferroviarie tunisine, il TGM (che collega Tunisi, La Goulette e La Marsa) è stato gestito, per circa 18 anni, da una compagnia italiana: la società Florio-Rubattino. In altri scritti si torna invece sulle tracce di vecchi aristocratici o pseudoaristocratici siciliani. È il caso del barone Crispino Campisi che sarà obbligato, a causa dei suoi debiti di gioco, a fuggire in Tunisia perché perseguitato dai suoi numerosi creditori o, ancora, di Pepito Abatino che finge di essere un conte siciliano nel momento in cui incontra e si innamora di Joséphine Baker, cantante, ballerina e attrice francese di origine americana. Altri testi affrontano il contesto mafioso della Sicilia del XIX secolo, che spinge molti siciliani a lasciare la loro isola natìa e a trasferirsi in Tunisia, un paese molto vicino dal punto di vista geografico, alla ricerca di condizioni di vita e professionali migliori. Infine, focalizzandosi su storie personali di siciliani emigrati in Tunisia, Campisi precisa i loro mestieri e le loro professioni. Un gran numero di pescatori siciliani hanno per esempio introdotto nel paese maghrebino tecniche di pesca innovative, come nel caso dei pescatori di spugne che operavano tra le città di Trapani e di Sfax. Tra i siciliani di Tunisia si contano anche molti architetti e imprenditori che hanno contribuito alla nascita delle prime sale cinematografiche in Tunisia (M. Gigli e F. Mercenaro) o alla progettazione e costruzione di palazzi importanti. Santo Giovanni Disca, per esempio, ha lavorato al cosiddetto “Balace Disca” di Hammam-Lif, dove peraltro si era insediato un folto numero di immigrati siciliani. I siciliani si sono inoltre distinti nel settore della moda: Louis Azzaro, grazie al suo savoir-faire e alle sue competenze, è riuscito a fondare una delle case di moda più prestigiose al mondo. Dopo questi testi liminari di Alfono Campisi, che hanno il merito di riabilitare la storia di luoghi e di personaggi legati in un modo o nell’altro alla presenza siciliana in Tunisia, la prima parte del libro è dedicata alle testimonianze di siciliani piuttosto anziani, nati o arrivati giovanissimi in Tunisia, che risiedono nella casa di riposo “Delarue-Langlois” di Radès. Questa raccolta di testimonianze è stata possibile grazie all’aiuto di Rita Bannino, presidentessa dell’associazione che gestisce da anni questa struttura sita appunto a Radès, nella periferia meridionale di Tunisi. È qui che abbiamo incontrato Salvatore Almanza, Emilia Manoguerra, Salvatore Cagnano, Emilio Cavasino e Giacomo Truscelli. Dalla nostra ultima visita alla casa di riposo, alcuni di loro sono deceduti. Grazie alle loro testimonianze noi possiamo oggi ascoltare le loro voci e trasmettere le loro esperienze di vita alle generazioni future. Non appena io e Alfonso siamo arrivati nella casa di riposo, una mattina di febbraio, di buon’ora, ci siamo immediatamente resi conto che la nostra presenza sollecitava la curiosità degli ospiti. Rita Bannino li aveva già informati della nostra visita: tutti sapevano che due signori sarebbero arrivati da Tunisi per incontrarli e intervistarli. Una volta varcata la soglia della casa di riposo, scorgiamo subito nel cortile i primi siciliani di Tunisi. Tutti ci accolgono calorosamente e capiamo subito che erano felici di vederci e che erano soprattutto pronti ad affidarci una parte delle loro storie, dei loro ricordi, dei loro aneddoti di gioventù. Noi avevamo preparato un questionario – come fanno tutti i ‘ladri di memoria’ che si rispettino – ma, dopo aver effettuato le prime due interviste, abbiamo deciso di continuare le conversazioni in modo più libero, senza rispettare per forza l’ordine delle domande stabilite. L’età a volte molto avanzata dei nostri interlocutori richiedeva da parte nostra una certa improvvisazione. I ricordi di tanto in tanto si sfocavano e lasciavano spazio alle emozioni: qualche lacrima, grandi risate, le parole si mescolavano al silenzio, i nomi delle persone e i toponimi sfilavano ed emergevano da un passato che è sempre troppo ‘recente’ e talvolta con i ricordi riaffioravano anche certe ferite che neanche il tempo era riuscito del tutto a cicatrizzare. Sappiamo che solo la memoria è capace di rendere gli uomini liberi, come si legge nel titolo di un libro di Enrico Mentana e di Liliana Segre, ‘La memoria rende liberi. La vita interrotta di una bambina nella Shoah’, abbiamo effettivamente constatato che i nostri interlocutori hanno tenuto molto e tengono ancora, nonostante l’età, alla loro libertà. Via via le storie cominciavano a ricomporsi in modo forse disordinato, ma sempre lucido. Ciascuno ha spiegato le ragioni che hanno spinto i loro genitori o i loro nonni a lasciare la Sicilia, la loro gioventù trascorsa in Tunisia, l’acquisizione di più lingue, il loro contesto sociale e culturale plurale, le relazioni con l’”altro”, la presenza di un ambiente interconfessionale che non ha mai costituito una frontiera ma, al contrario, un fattore di coesione, le relazioni con i francesi che ricoprivano il ruolo del colonizzatore, le pressioni subite in merito alla naturalizzazione che era da loro considerata come una vera e propria perdita di identità, le persecuzioni subite durante gli anni della Seconda Guerra mondiale, quando tutti gli italiani di Tunisia erano considerati dei fascisti, l’esperienza, per alcuni di loro, dei lavori forzati in campi allestiti essenzialmente nel territorio algerino.

Il ritorno in Tunisia, la vita in Tunisia durante i primi anni dell’indipendenza tunisina, la partenza di molti italiani che hanno preferito lasciare la “Tunisia libera” per rientrare in Europa, in Italia o in Francia, infine, la difficile accoglienza in Italia riservata a questi “italiani d’Africa” che spesso (ri)trovano una patria cambiata o addirittura mai conosciuta prima di quel momento. Queste preziose testimonianze raccolte nella prima parte del nostro volume, Storia e racconti di siciliani residenti nella casa di riposo “Delarue-Langlois” di Radès, sono state spesso raccontate in più lingue: il siciliano si mescolava al francese e l’arabo di Tunisia faceva qualche apparizione soprattutto nelle espressioni quotidiane e familiari, nel lessico della cucina o nei nomi delle feste religiose. Noi ascoltavamo, spesso stupiti, le trame di quei discorsi che testimoniano un’esperienza interculturale intensa, spontanea, quasi innocente e che ha saputo creare intorno alle sponde del Mediterraneo tutto un sistema di relazioni che per noi oggi sono difficili da immaginare. Eravamo di fronte a vite che si sono costruite in una sorta di dislocazione culturale che tuttavia non ha snaturato né tanto meno indebolito il sentimento di appartenenza alla loro patria. Queste donne e questi uomini si considerano infatti ancora oggi italiane e italiani, pur non avendo mai vissuto in Italia o pur essendo stati in Italia una o due volte in tutta la loro vita. Queste storie, che leggiamo raramente nei manuali di storia, provano che oggi è ancora possibile immaginare un Mediterraneo diverso: un Mediterraneo che possa legare e creare delle relazioni umane al di là delle nozioni di patria, di nazionalità, di identità, di frontiera o di conflitto territoriale, culturale o religioso. Queste donne e questi uomini, facenti per lo più parte di classi sociali modeste, hanno fatto della loro vita, forse inconsapevolmente, uno spazio di incontro con l’altro. È grazie a loro forse che quando si entra nel porto della Goulette si ha ancora oggi la sensazione di arrivare a Palermo; è grazie a loro che è ancora 77 possibile sentir pronunciare dai pescatori tunisini parole in siciliano quando parlano fra loro delle tecniche di pesca utilizzate in mare aperto; è infine grazie a loro che, passeggiando per le strade di molte città tunisine, si possono ancora scorgere elementi architettonici o artistici che ricordano il patrimonio culturale della Penisola o quello comune a tutti i paesi del bacino del Mediterraneo. La seconda parte del volume, Altre testimonianze di siciliani di Tunisia, raccoglie le testimonianze di siciliani di Tunisia che hanno vissuto interamente o solo una parte della loro vita in Tunisia, che sono nati in Tunisia pur vivendo attualmente tra la Tunisia e l’Italia (o la Francia) o, infine, che hanno deciso di lasciare la Tunisia negli anni Sessanta del secolo scorso, dopo l’indipendenza tunisina. Ciascuno di questi testi mette in evidenza un diverso e complesso sentimento di appartenenza alla Tunisia, all’Italia o alla Francia, come lo si può rilevare dall’ortografia dei nomi e cognomi dei testimoni. Il primo testo della sezione traccia sinteticamente le tappe della vita di Lucia Campisi, la prima donna farmacista di Tunisia. Il profilo di questa donna cólta ed emancipata, da un lato, contraddice gli stereotipi sulla condizione femminile nella Sicilia dell’epoca e, dall’altro, mostra come la comunità siciliana di Tunisia fosse così eterogenea. Il racconto di Maria Rita Gandolfo, nata in Tunisia da genitori siciliani, si focalizza invece sulla sua giovinezza trascorsa in Tunisia e sul suo ritorno in Sicilia negli anni Sessanta. È sottolineato, in particolare, il carattere multiculturale della Tunisia tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, come anche lo strazio provocato dal ‘ritorno forzato’ in Sicilia. Come evidenziato dalla testimonianza, solo l’isola di Favignana, la terra d’origine del padre, sembra oggi far riemergere la nostalgia e i ricordi, ancora vivi, della Tunisia natale. Maria Rita Gandolfo parla infine della volontà del padre di mantenere la nazionalità italiana, anche se la naturalizzazione avrebbe potuto aiutare la famiglia ad evitare il doloroso rimpatrio. Dalle parole di Geròm Savalli, di Marysa Impellizzeri e di sua madre Giuseppina Pace Impellizzeri, si evince che un’identità unica non sembrava essere sufficiente per i siciliani di Tunisia che decisero di trasferirsi in Italia dopo l’indipendenza della Tunisia. Nel corso della loro vita essi avevano effettivamente imparato a costruirsi in base alle relazioni che si erano andate tessendo fra musulmani, ebrei, cristiani, maltesi, tunisini, francesi e italiani di Sicilia, di Sardegna, di Toscana e di Liguria. Queste relazioni avevano inoltre contribuito a far nascere una lingua, il siculo-tunisino, parlata da questa comunità così singolare che abitava nel cuore del Mediterraneo. A causa di questa varietà linguistica, abbiamo deciso di non uniformare i testi raccolti. Tutti gli autori delle testimonianze sono stati liberi di esprimersi nella ‘loro’ lingua d’elezione o nelle lingue e dialetti che meglio avrebbero potuto esprimere la storia e i ricordi di ciascuno. A volte è stato difficile comprendere parole appartenenti alle varietà linguistiche del siciliano, soprattutto quando queste si mescolano con l’arabo parlato in Tunisia. In questo caso specifico gli ‘errori apparenti’ presentano un valore aggiunto: essi sono sintomatici dell’erranza identitaria e linguistica, ed abbiamo scelto di preservarli. Occorre anche sottolineare la scelta di non tradurre tutti i testi in italiano o in francese: questo mostra la pluralità linguistica di cui disponeva questa comunità per esprimersi. La scelta di una lingua non è mai frutto del caso: ciascuna interroga, rappresenta e traduce la realtà in un modo specifico. Per questo, nel nostro volume le diverse lingue praticate dai siciliani di Tunisia hanno il loro spazio e ciascuna ci parla diversamente dello stesso mondo e dello stesso spazio geografico e mentale, ma attraverso percezioni e prospettive diverse. Le storie dei siciliani di Tunisia non si assomigliano affatto. Nella testimonianza di Raffaele Cannamela, per esempio, il  lettore si ritrova di fronte ad un uomo che si ritrova a vivere a Marsiglia o, nel caso di Gerald Di Giovanni, l’erranza familiare si estende su più continenti, tra la Tunisia, la Sicilia, la Francia e la Luisiana, negli Stati Uniti, paese che peraltro ha accolto, sin dal XIX secolo, un numero impressionante di migranti siciliani. Poco sopra abbiamo accennato al fenomeno della naturalizzazione francese che ha riguardato molti italiani e siciliani di Tunisia: una campagna fortemente voluta dai coloni francesi per compensare la loro inferiorità numerica in questo paese del Maghreb. L’acquisizione della nazionalità francese permetteva spesso di ottenere diversi benefici a livello amministrativo e professionale, soprattutto durante gli anni del Protettorato francese. In più la naturalizzazione permetteva a molti italiani di non essere considerati come dei fascisti durante l’epoca della dittatura di Mussolini in Italia. D’altronde, dopo l’indipendenza tunisina molti siciliani hanno preferito lasciare la Tunisia per trasferirsi in Francia. È il caso di Claudia Tartamella-Ciantar che, dopo un periodo trascorso in Picardia, si trasferirà a Nîmes, dove tuttora vive. I dipartimenti del sud della Francia, dall’Hérault al Var, passando per il Gard e le Bouches du Rhône, contano oggi un numero elevato di famiglie d’origine siciliana che hanno vissuto in Tunisia per diverso tempo. In tutti questi racconti, ricordi e testimonianze le tante terre del Mediterraneo sembrano incontrarsi e scontrarsi, e ogni voce sembra riflettersi e rifrangersi in un mosaico infinito di origini e di appartenenze : maltese, siciliana, sarda, tunisina, francese, ebraica… In queste dinamiche di permanenze, di migrazioni, di arrivi e di partenze si ha come l’impressione di veder vivere un certo numero di nozioni e idee pensate, sul piano teorico, da intellettuali che, sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, si sono occupati delle delicate questioni del postcoloniale, dell’interculturalità e del plurilinguismo. Penso, fra gli altri, a Aimé Césaire, Frantz Fanon, Tzvetan Todorov che si sono a lungo interrogati sulle complesse dinamiche dell’incontro-scontro fra culture, lingue e visioni del mondo. A questo proposito Édouard Glissant arriva a teorizzare l’esistenza di un ‘Tutto-Mondo’ che sarebbe capace di comprendere al suo interno tutti i mondi dell’epoca contemporanea. Quello che colpisce di più alla lettura delle varie testimonianze è la difficoltà provata da queste donne e da questi uomini ‘erranti’ di comporre ed elaborare un’identità in un contesto plurale come quello della Tunisia fra i due secoli, senza dimenticare i traumi del rimpatrio, spesso forzato, in Italia o in Francia, vissuto dai siciliani di Tunisia come una disfatta, una lacerazione. Da un lato, essi si sentono esclusi e rigettati dal paese in cui erano nati e dove le loro famiglie erano state capaci di ricostruire una vita sociale, professionale e personale, dall’altro, essi non riescono a riconoscersi in un paese, l’Italia, che i loro nonni o i loro genitori avevano deciso di lasciare da molti decenni. Questo sentimento d’appartenenza e di estraneità nei confronti della patria familiare è poi alimentato anche da un’accoglienza piuttosto fredda mostrata nei loro confronti dalle autorità italiane che si sono trovate impreparate di fronte ad un ritorno così imponente di compatrioti vissuti per molti decenni in terra d’Africa. Donde la definizione di “Italiani d’Africa”: un’espressione che non faceva altro che sottolineare la loro posizione ambigua all’interno di un’Italia che, proprio negli anni Sessanta, era in piena crescita industriale. La delusione evidente sul piano sociale, politico e culturale che leggiamo in questi racconti viene soprattutto dal fatto di ritrovarsi in un paese dove era in corso un processo di omologazione, sottolineato tra gli altri da Pier Paolo Pasolini, che tendeva a ridurre o addirittura a cancellare le differenze tra lingue e specificità regionali in nome di una standardizzazione culturale fondata sui valori di una borghesia media e interclassista. Questo contesto ha sorpreso i siciliani di Tunisia che, nel loro quotidiano, erano invece abituati a frequentare culture e lingue diverse: la cucina, le feste religiose, le relazioni amicali, ecc. In più i moltissimi italiani (di cui i siciliani costituivano una maggioranza) che decisero di tornare in Italia sono stati spesso accolti in campi-profughi allestiti rapidamente e alla meno peggio in varie città della Penisola, ove le condizioni erano più che precarie: assenza di riscaldamento, cibo insufficiente e di cattiva qualità, alloggi di fortuna, scarsi aiuti economici. La preoccupazione più grande di questi ‘rimpatriati’ era quella di ritrovare una vita professionale degna di questo nome in un paese che non assomigliava affatto alla loro Tunisia plurale. Nella terza parte di questo volume, Studi linguistici e lessicali del siculo-tunisino, si propone al lettore un lemmario, redatto da Iride Valenti, docente di linguistica all’Università di Catania, costruito sulla competenza lessicale della scrittrice italotunisina Marinette Pendola, nata nel 1948 a Tunisi da una famiglia siciliana di Sciacca, una cittadina in provincia di Agrigento. Agli inizi del XX secolo la famiglia di Marinette si trasferisce nelle campagne di Bir Halima, ad una cinquantina di chilometri da Tunisi. Malgrado la sua sinteticità, questo lessico fornisce un’idea abbastanza precisa delle abitudini linguistiche di una siciliana di Tunisia, come anche dell’insieme delle persone appartenenti a questa comunità in cui la scrittrice ha vissuto sino all’età di tredici anni, prima di lasciare il paese nord-africano. Occorre sottolineare che l’autrice ha sempre mantenuto dei legami e dei contatti molto forti con il suo paese natale. A partire da questo lemmario, che si compone di circa 180 entrate lessicali, Iride Valenti spiega in che modo e in quale misura l’italiano e il tunisino hanno contribuito a modificare le caratteristiche del siciliano, il quale, accogliendo progressivamente al suo interno numerosi francesismi ed arabismi, favorirà la nascita di una vera e propria espressione siculo-tunisina. Si tratterebbe quasi di una ‘interlingua’ che mostra chiaramente l’interazione profonda tra le diverse culture della Tunisia dell’epoca, ma anche una circolazione densa e un dialogo costante tra le abitudini e le tradizioni di cui ciascuna di queste culture si fa portatrice. Questa dimensione interculturale riguarda anche il savoirfaire e il savoir-vivre, come testimoniato dalle diverse ricette di cucina che sono presentate nella quarta e ultima parte del libro, intitolata Allegati. La ricca e antica tradizione della cucina siciliana, soprattutto nei prodotti di pasticceria, si arricchisce e accoglie i profumi, gli aromi e le spezie tipici della pasticceria tunisina. Il volume si chiude con una serie di fotografie e di cartoline della Goulette e in particolare del quartiere della “Piccola Sicilia”, che rappresentavano i due centri nevralgici della presenza siciliana in Tunisia. Queste immagini mostrano le tracce architettoniche, antropologiche e culturali lasciate dai siciliani alla Goulette, ove peraltro le tre religioni monoteiste del Mediterraneo hanno dato all’intera umanità un raro esempio di dialogo, di conoscenza e di rispetto reciproci. È emozionante constatare come le diverse comunità di religione musulmana, cristiana e ebraica partecipassero, per esempio, alle loro rispettive festività in un clima di distensione e di cordialità. Questo sentimento di condivisione esprimeva l’affetto, il rispetto e la considerazione per il collega di lavoro, il compagno di classe, il vicino che si incontrava alla fine della giornata nel caffè del quartiere, o semplicemente la voglia di comprendere se stesso attraverso l’Altro. Non posso non pensare, nel momento in cui scrivo questo testo introduttivo, all’attentato al museo del Bardo del 18 marzo 2015, che ha violentemente colpito la Tunisia. Questo avvenimento, che ha provocato molti morti e feriti di diverse nazionalità, è ancora più esecrabile perché si carica di un valore fortemente simbolico. In effetti esso non ha contribuito solo a destabilizzare uno dei rari paesi che ha saputo mobilizzarsi durante la “Primavera araba del 2011” – grazie soprattutto al coraggio e al coinvolgimento delle donne tunisine – ma anche a colpire un luogo deputato alla conservazione della memoria: una memoria che non appartiene solo alla Tunisia o ai paesi arabi, ma a tutte le popolazioni del Mediterraneo e alle donne e agli uomini del mondo intero. Solo la memoria è capace di rendere gli uomini liberi: questo libro vuole prima di tutto essere un omaggio alla memoria che si oppone alla barbarie, all’oscurantismo, all’ignoranza, all’intolleranza, alla banalità e alla violenza che troppo spesso affliggono, tormentano e disumanizzano l’epoca contemporanea.

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