Ospitiamo uno scritto di Paola Strippoli e Santo Graziano, docenti di storia e di lettere in pensione che raccontano il loro incontro e il personale ricordo di Lidia Menapace, che fu a Trapani, quattro anni fa, su invito dell’ANPI provinciale per incontrare gli studenti e presentare il suo libro sulla esperienza partigiana. Non è la cronaca giornalistica di quell’incontro ma, piuttosto, la narrazione di personalissima sensibilità.

Fabio Pace

MA TUO PADRE LO SA?

di Paola Strippoli e Santo Graziano

Il nostro ricordo di Lidia Menapace, morta il 7 dicembre scorso nel reparto Covid19 dell’ospedale di Bolzano, non è di tipo letterario o di mitizzazione socio-collettiva. È legato a una chiacchierata che abbiamo fatto con Lei in coda a alla presentazione del suo libro, “Io partigiana – La mia resistenza” che ha avuto luogo presso la Biblioteca Fardelliana di Trapani nell’ottobre del 2016. Una volta terminati i convenevoli delle dediche agli acquirenti della copia del libro e rimasta seduta libera e sola, ci siamo seduti accanto a lei e intavolato una bella discussione, cercando di approfittare dell’occasione per fare con la nostra un escursus di alcune vicende salienti per la storia del nostro Paese e della sinistra. Per altro non eravamo a conoscenza dei suoi trascorsi cattolici e democristiani, per cui abbiamo discusso con lei e letto le sue impressioni dando per scontato che venisse, come la Rossanda e la Castellina, dalle file del PCI. Noi peraltro non essendo stati militanti del Manifesto, non avevamo di lei conoscenze così dettagliate sui suoi trascorsi politici.

Abbiamo parlato del rapporto tra i partigiane e le partigiane e lei, cosa che peraltro affronta anche nel succitato suo ultimo libro, raccontava come i “compagni” così li chiamavamo, guardavano alle donne con un occhio malizioso: «tuo padre lo sa che sei qua o che fai queste cose?» Come se ciò che stesse facendo fosse una cosa generalmente disdicevole per una ragazza; salvo poi non risultare di grande utilità… operare, rischiare e correre di qui e di là, venendo guardate con occhio non benevolo dai propri compagni di lotta. I fatti, poi, delle manifestazioni del 6 maggio del ’45 narrati non solo da lei, ma dalla Mafai e da altre, sono la prova lampante di quale scarsa riconoscenza ebbe nell’immediato l’apporto delle donne alla lotta di liberazione.

Sempre in tema di Resistenza e secondo conflitto mondiale ci siamo soffermati sulla vicenda degli IMI, tema che a lei stava particolarmente a cuore. Suo padre peraltro era stato uno di loro. Giustamente Lidia Menapace sottolineava come anche loro avessero dato alla lotta di liberazione un grosso apporto, magari silenzioso, ma non per questo trascurabile e da ignorare. Per dirla con il suo linguaggio, si trattava di un’«azione non violenta», così come la intendeva lei, diversificandola dalla generica «non violenza». Gli IMI, Internati Militari Italiani erano nostri soldati appunto, fatti prigionieri dai nazisti e internati in campi di lavoro tedeschi. A queste persone venne offerta la possibilità di essere liberati, di tornare in Italia, e come i comuni militari, poter godere di qualche licenza per tornare a casa. Il prezzo da pagare era però costituito dall’arruolamento nell’esercito della RSI. Costoro, quindi, furono uomini che respinsero l’offerta di tornare in Italia piuttosto che combattere a fianco dei nazi-fascisti contro il loro paese, di rendersi complici attivi di azioni compiute da costoro, a danni dei nostri concittadini, di donne e uomini inermi, di intere popolazioni civili. Insomma, con la loro scelta di non aderire all’esercito della RSI, se non hanno combattuto nelle e/o con le brigate partigiane, hanno dato loro una mano, avendo sottratto forze e potenziali soldati ai “repubblichini”.

Avrebbe voluto intraprendere una qualche azione in merito a ciò allorché faceva parte della Commissione Difesa della Camera, ma le vicende di quella legislatura sono note a tutti, della cui negatività fu peraltro, triste protagonista quel De Gregorio che Le fu preferito quale presidente della suddetta commissione difesa della Camera.

Abbiamo infine conversato in merito ad alcune vicende del ’47. Ci siamo soffermati sulla condizione di Nilde Jotti all’interno del PCI e sulle difficoltà incontrate e i conseguenti ostracismi subiti. Lo spunto per parlare della Jotti è venuto fuori conversando del rapporto cattolici-comunisti, PCI-chiesa e cattolici, insomma… Articolo 7 della Costituzione. A noi risulta che la Jotti avesse votato a favore per disciplina di partito. Segno questo che all’interno del PCI la scelta togliattiana era stata imposta e non totalmente condivisa. Ne abbiamo discusso noi criticando la scelta del leader comunista di cercare il rapporto con il vertice dell’istituzione dei cattolici piuttosto che proporre una visione autenticamente laica. Una scelta più dal sapore bruttamente o brutalmente tattico che di proposizione di propri valori. Strategia tendente a ottenere il riconoscimento di “intrasistemicità”, peraltro mai ottenuto. Ottenuto solamente allorché il fattore K, è scomparso dalla faccia della terra, e non per meriti delle scelte del partito comunista. Il riconoscimento è stato ottenuto solo dopo che questi partiti sono stati cancellati. Solo dopo che grazie al finanziamento di Papa Wojtyla a Solidarnosc e al golpe degli Usa in Urss ai diseredati, agli operai, ai ceti poco abbienti e a tutte le persone contrarie al capitalismo è stata tolta la speranza di guardare a un’alternativa al sistema occidentale.

Lidia Menapace però, giustificava Togliatti. «Credo che egli abbia fatto questa scelta – diceva -, perché era vissuto troppo tempo in Russia e aveva scarse conoscenze della situazione italiana». Alludeva alla sua non conoscenza del fermento interno al mondo cattolico e alla presenza di figure leader quali Dossetti. Noi, però, sul punto siamo rimasti della nostra opinione, pur non ignorando l’esistenza del fenomeno. Il ricordo che ce ne è rimasto non può che essere quello di una seria e illuminante conversazione storico politica.